Maggio del '98
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXXII, fasc. 292, p. 3
Data: 8 dicembre 1957
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In un pomeriggio del maggio 1898 un compagno di scuola, Pietro Romanelli, mi aveva portato nella casa dove stava a dozzina e dove alloggiavano anche certe ragazze della Scuola Normale.
A Romanelli piacevano fuor di modo le donne e s'era accasato apposta in quel gineceo di vergini studentesche. Quel giorno di maggio v'introdusse anche me e da poco m'ero seduto accanto a una di quelle ragazze con la scusa di aiutarla per una versione francese, quando entrò nella stanza, di corsa, una donna con gli occhi spiritati, gridando che nel centro della città c'era la rivoluzione e che si ammazzava la gente. Io e Romanelli non si fece discorsi: si prese il cappello, si lasciò le ragazze che c'imploravano di rimanere, e s'andò verso Piazza Vittorio, per vedere quel che accadeva.
La notizia era vera. Dappertutto sussurro, subbuglio e fuggi fuggi: si udivano sempre più fitti gli spari. Arrivati in via Calzaioli si vide uno stuolo di carabinieri che sparavano all'impazzata sulla folla fuggente. Si fece appena a tempo a entrare in una bottega di cappellaio che stavano proprio allora chiudendo, e dove non volevano accoglierci temendo che si fosse due rivoltosi. Quando si uscì la gente si era dispersa, ma qua e là vi eran macchie di sangue in terra, e squadroni di cavalleria che andavano su e giù, con gran rumorio di zoccoli, per le vie principali. Si seppe che c'erano stati morti e feriti, tra i quali un cieco, che passava di là per caso.
Quel giorno, ci dissero, una colonna di pezzenti disperati si era partita dai quartieri d'Oltrarno e appena passato il fiume aveva cominciato a rompere vetri e lampioni, a gridare «viva la rivoluzione», ad aggredire le persone ben vestite. I «forcaioli» indigeni — detti allora la Consorteria — avevan telegrafato a Roma che la città era in balìa d'un pugno di facinorosi e il prefetto aveva chiamato in aiuto l'esercito per mettere in fuga gl'inermi tumultuanti. La sera Firenze era tutta silenziosa e oscura come non mai. Chiusi i caffè e i teatri, sprangata ogni porta, serrata e buia ogni finestra. Sembrava una città di morti.
Giorni prima, a Milano, avevan fatto le barricate; in Sicilia invadevano e incendiavano i municipi; la Lunigiana, dov'era stata da poco domata una grave rivolta, era di nuovo in fermento. I moti del '94, sedati a forza di piombo; le sconfitte affricane; il rincaro del pane; la cresciuta virulenza dell'opposizione repubblicana e socialista; il crescente discredito della monarchia, erano sboccati in quelle disordinate sommosse, che presto fallirono, e dettero modo al governo di ordinare lo stato di assedio in molte città e di far votare leggi d'eccezione. Vi furono processi e condanne, soprattutto a Milano, e regnò in tutto il Paese una specie di terrore.
Ma la reazione poliziesca, come sempre avviene, stimolò e moltiplicò gli spiriti ribelli. E fu proprio in quegli anni ch'io passai dalla Repubblica di Mazzini all'Anarchia di Stirner.
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